sabato 19 ottobre 2013

Cos'ho cucinato oggi?

Pasta e zucca gratinata con formaggio fuso e pecorino

Ingredienti per 6 persone:
500 g di pasta
700 g di zucca
300 ml di latte circa
1 spicchio d'aglio
250 g di formaggio tipo piccante o saporito
pecorino grattugiato q.b.
pangrattato q.b.
olio extravergine d'oliva
sale
pepe (facoltativo)
Sbucciate la zucca ed eliminate i semi, tagliate poi la polpa a cubetti e pesatene circa 700g.
Rosolate uno spicchio d’aglio (o cipolla, se preferite) ed aggiungete la zucca ed un po’ di sale
Fate cuocere 5 minuti, togliete l’aglio ed aggiungete il latte
Coprite e fate cuocere una ventina di minuti a fiamma bassa, girando di tanto in tanto. Quando la zucca si sarà ammorbidita, schiacciate con una forchetta o frullate con un frullatore ad immersione, per ottenere una crema più liscia.
Cuocete la pasta in abbondante acqua salata e scolatela molto al dente. Condite con la zucca, aggiungete un po’ di pecorino, pepe ed il provolone a cubetti. Se la crema di zucca è troppo densa, aggiungete un altro po’ di latte per evitare che la pasta si secchi in forno.
Trasferite in una pirofila unta con un po’ d’olio o di burro. Cospargete con pecorino e un po’ di pangrattato. Aggiungete un filo d’olio o qualche fiocchetto di burro.



Fate gratinare in forno preriscaldato a 180° per 20' circa fino a doratura e gli ultimi 5' se possibile, attivate solo la parte superiore del forno.
Di seguito ho racchiuso in un video sequenza le fasi principale della preparazione.



venerdì 18 ottobre 2013

Scrivendo sulla storia n. 34 del 18 Ottobre 2013

USA: accordo "all'italiana" per salvare il paese dal default.

L'America tira un grosso sospiro di sollievo: I leader dei parlamentari repubblicani e democratici statunitensi hanno annunciato mercoledì scorso di aver trovato un accordo tra i due partiti per interrompere lo shutdown, uno stato di emergenza economico-finanziaria che comporta l'immediata sospensione di tutte le attività pubbliche statunitensi che finora avevano operato alla luce dei fondi pubblici, oltre alla chiusura di buona parte delle attività governative dovuta alla mancata approvazione della legge finanziaria.  
Il passo successivo,a partire da giovedì 17 ottobre 2013 sarebbe stato il default, lo stato di insolvenza e la corsa a capofitto verso il più grande dissesto finanziario di tutti i tempi.
L’accordo è null'altro che un compromesso, una soluzione molto "italiana" con cui i Repubblicani rinunciano temporaneamente alle loro richieste di bloccare la riforma sanitaria e ottenere grossi tagli alla spesa pubblica. In realtà continua a mancare un vero e proprio piano per la riorganizzazione della spesa.
Foto Barak Obama
Viene anche alzato il limite massimo del debito americano, che ai livelli attuali rendeva molto più difficile per il governo degli Stati Uniti reperire risorse per autofinanziarsi. Per ora si è trovata un’intesa per mettere fine allo shutdown fino al 15 gennaio e per estendere al 7 febbraio il periodo in cui il Tesoro può legalmente finanziarsi emettendo nuovi titoli di debito pubblico. 
Negli Stati Uniti, la cifra massima che il governo può chiedere in prestito per finanziare le sue spese è limitata. Una volta raggiunto il limite – che fino ad oggi era fissato a 16.699 miliardi di dollari – il Dipartimento del Tesoro non può più emettere nuove obbligazioni di debito per finanziare i pagamenti.
La legge deve essere approvata anche dal Senato, dove la maggioranza è in favore dei repubblicani: serve dunque un piccolo esercito di 32 senatori pronti a votare l’accordo "bi-partizan".
Nei gironi scorsi il presidente Barak Obama aveva rifiutato una proposta dei repubblicani che avrebbe permesso di risolvere la questione in cambio di grosse modifiche alla recente riforma sanitaria voluta da lui in persona. Il fatto che Obama sia riuscito a non fare concessioni di questo tipo è di sicuro una sconfitta per la linea intransigente dei repubblicani e una dimostrazione di quanta autorevolezza la sua persona goda nel paese, nonostante le soluzioni "all'italiana".
Questo post è stato pubblicato il 18.10.2013 su Cervelliamo blog

 

lunedì 14 ottobre 2013

Scrivendo sulla storia n. 33 del 14 ottobre 2013


Riposa in pace, baby-hope!

Da oggi “Baby Hope” ha un nome. Da qualche giorno, dopo 22 anni, un mucchietto di resti umani malridotti e decomposti, sicuramente appartenuti ad una bambina bianca, non sono più un caso irrisolto di infanticidio a scopo sessuale.
Il caso suscitò molto scalpore tra gli investigatori e tra i cittadini newyorkesi che il 23 luglio 1991 scoprirono l'ennesima frontiera dell'orrore umano: in una ghiacciaia da picnic, sotto ad un grosso albero di un boschetto di Washington Heights qualcuno aveva rinchiuso il corpo che aveva appena soffocato ed ucciso , dopo aver abusato di lei sessualmente. Poi aveva scelto di rinchiuderla con una buona dose di lattine di coca-cola in quel misero tugurio, tentando di accellerarne così la decomposizione.
Un “Cold Case” al contrario: in questo caso non si trattava di rintracciare una persona scomparsa nel nulla, ma di dare identità (e giustizia) ad un corpo senza nome. Gli investigatori batterono tutte le piste utilizzando ogni risorsa possibile: ricostruzione al computer delle fattezze di quella bambina, migliaia di volantini affissi o distribuiti, una taglia di 12.00 dollari, una help-line, centinaia di segnalazioni...ma non portarono da nessuna parte. Locandina ricompensaLa piccola salma fu pietosamente ricomposta e seppellita (a spese dei poliziotti) con la pietosa epigrafe di bambina-che-spera.  Ma la tenacia degli investigatori e la certezza che quello fosse un crimine perpetrato e avvallato tra mura domestiche (che spiegavano perché nessuna denuncia di scomparsa fosse mai stata presentata), finalmente la scorsa primavera ha portato dei risultati: complice una soffiata su una donna che andava in giro dicendo di essere la sorella di una bambina uccisa uccisa da piccola (ma il caso non era registrato alla Polizia), la Polizia ha rintracciato la donna e attraverso il DNA è risalita alla madre defunta di Angeljca Castillo, che all'epoca dei fatti aveva 4 anni, ma era già nelle mire dello zio, Corrado Juarez, oggi 52enne, arrestato nei giorni successivi all'identificazione.
Il mostro, durante una visita a sua sorella Balvina, aveva attirato da parte la piccola Angeljca, aveva abusato di lei e poi in preda ad un raptus l'aveva soffocata. La madre aveva protetto il suo crimine, adoperandosi con lui per trasportare e nascondere il corpo della piccola.
Tanto orrore aveva resistito per ventidue anni, sepolto nella coscienza mostruosa dei due. Ma la perseveranza e la speranza della Polizia di New York è stata più forte. Ed ha rimosso una piccola lapide al cimitero che ora porterà un nome.
(Questo post è stato pubblicato il 14 Ottobre 2013 su  Cervelliamo.blog )

venerdì 11 ottobre 2013

Scrivendo sulla storia n. 32 dell'11 Ottobre 2013



Addio a Paolo Morelli, anima e leader de "Gli Alunni del Sole"


Lo ha fermato un infarto, mercoledì pomeriggio, al centro di Roma mentre era in auto con suo fratello. Paolo Morelli, tastierista e cantante, con suo fratello Bruno, chitarrista, ed altri tre musicisti, Giulio Leofrigio (batteria), Antonio Rapicavoli (sassofono) e Giampaolo Borra (basso), era universalmente riconosciuto il leder di un gruppo che aveva come nome il titolo di un romanzo: Gli Alunni del Sole.
Erano figli d'arte (il padre era un noto pianista) e questo ha sempre contaminato il loro repertorio, dandogli un'apporto di qualità musicale molto alta. Ma era anche un gruppo che cantava cose facili orecchiabili. Era l'anima poetica di una generazione pop italiana che era nata e si era affermata a cavallo degli anni “60, facendosi largo e coltivandosi un proprio spazio tra formazioni come la Premiata Forneria Marconi, le Orme da un lato e il Giardino dei Semplici, i Cugini di Campagna dall'altro. A quell'epoca non si etichettava un genere o una melodia. La si ascoltava e basta. E i gruppi più ascoltati erano quelli con i dischi più venduti.
Gli Alunni del Sole ne hanno venduti eccome di dischi. La loro prima raccolta “...e mi manchi tanto” fu la prima raccolta di tutti i singoli lanciati fino ad allora e un successo clamoroso: la dimostrazione che quel gruppo di bravi musicisti poteva spaziare da un genere all'altro, riscuotendo consensi.
Foto gruppo (1972)Singolare anche il titolo dell'album successivo “Dov'era lei a quell'ora”, datato 1972, un concept album struggente e bellissimo, che racconta di un uomo accusato, poi scopriremo ingiustamente, di omicidiio.
Il successo arriva con “L'aquilone” , “Liù”, poi qualcosa si incrina. Il mondo cambia intorno a loro. E paolo Morelli decide di non voler essere un cantante per tutte le stagioni: il gruppo sparisce di scena, lui si dedica alla pittura, salvo qualche rara, sporadica esibizione. 
L'ultima al Premio Carosone nel 2010 con “A canzuncella”. In programma c'era, a grande richiesta il ritorno del gruppo con un progetto nuovo. Sarebbe stato ancora una volta innovativo ed avrebbe stupito pubblico e critica, giura chi li consce ed ha seguito negli ultimi tempi il gruppo. Oltre che un nuovo successo.
Questo post è stato pubblicato l'11 ottobre 2013 su Cervelliamo blog

giovedì 10 ottobre 2013

Scrivendo sulla storia n. 31 del 10.10.2013

 La notte del Vajont

 Ieri sera, poco prima delle 23 (alle 22.39 per la precisione) forse voi non l'avete sentito, ma molte persone ogni anno a quell'ora giurano di sentirlo ancora, quel rumore. 
E' forte stridente, inequivocabile. E' il rumore di un milione di camion che scaricano contemporaneamente dal loro cassone ribaltabile il loro carico di ghiaia, o di terriccio, o di pietra di breccia. E' il rumore del Vajont.
E' lo stesso rumore che cinquant'anni fa udirono oltre cinquemila bellunesi che vivevano nella valle del Piave, fra Belluno e Pordenone, in Friuli. E' la forza spaventosa di 270 milioni di metri cubi di ghiaia che si staccarono dalla montagna (il Toc) e che caddero nel bacino artificiale creato dall'imponente diga voluta per produrre nuova energia elettrica. Venti secondi dopo, oltre 25 milioni di litri di acqua e fango saltano il limite della diga stessa, lasciandolo miracolosamente intatto e precipitano giù. 
La diga del Vajont oggi
 Quattro lunghissimi minuti vissuti tra incredulità e terrore. Troppo pochi per decidere se la colpa fosse dell'invaso riempito oltre il limite in quel periodo per testarne la consistenza. Se invece non fosse colpa del monte Toc friabile e franoso come tanti tecnici e giornalisti ficcanaso andavano affermando (e scrivendo) da tempo. Se la tragedia che stava per abbattersi su quelle pacifica e silenziosa comunità non fosse l'inevitabile conseguenza di errori tecnici a raffica, di perizie sommarie, di allarmi tralasciati per indolenza o ignoranza per inseguire fanaticamente il sogno di un gigante mondiale dell'energia, l'impero della produzione elettrica al servizio del boom economico di quei tempi. Pochi minuti dopo quel rumore stridente e sinistro paesi come Longarone, Erto e Casso non esistono più. Sono sepolti sotto metri di fango e 1910 persone sono sepolte con essi. E dopo il silenzio. Il silenzio nonostante una decina di inchieste, nonostante la condanna di due dirigenti della SADE e del Ministero dei Lavori Pubblici in quanto esecutori materiali dei lavori, nonostante una vera ricostruzione del Vajont non ci sia mai stata. Di 330 vittime non si sono ritrovati più nemmeno i resti, tale e tanta è la furia del mostro che urlava quella notte. E che ogni 9 ottobre, in piena notte, torna a far rabbrividire chi ancora non dimentica la notte del Vajont.
Questo post è stato pubblicato il 10 ttobre 2013 su Cervelliamo blog .

martedì 8 ottobre 2013

Scrivendo sulla storia n.30 del 8 Ottobre 2013


Il governo che offre un caffè al giorno ai lavoratori dipendenti per uscire dalla crisi

Chiunque abbia mai avuto la responsabilità di un'impresa commerciale o abbia mai lavorato come dipendente sa che la retribuzione di un lavoratore, seppur diversamente inquadrata in livelli a seconda delle mansioni e competenze non è quella effettivamente corrisposta al lavoratore, ma il suo corrispettivo è maggiorato da una serie di oneri. Taluni sono a carico dell'azienda che svolge il ruolo di datore di lavoro (25,6%), una quota sono corrisposti dal lavoratore stesso (20,6%).
In Italia, la somma di queste due quote è del 46,2 % ed è la più alta in Europa (fonte ISTAT/2010). In alcuni paesi del Nord Europa è anche maggiore, ma prevede in cambio l'erogazione di servizi aggiuntivi (scolastici, sociali ecc...) . In pratica in Italia un lavoratore che percepisce uno stipendio di mille euro al mese, in realtà lavora e produce per 1.946,20 euro.
La riduzione del cosiddetto cuneo fiscale è uno degli obiettivi prossimi venturi del governo ed è a detta di tutti il modo più veloce per riacquistare competitività, beneficiare della crescita di richieste di prodotti dall'estero. Arrivando maggiori entrate in busta paga si aumenterebbe il potere d’acquisto delle famiglie e questo nel medio periodo dovrebbe portare anche a una maggiore domanda interna. Infine l'abbassamento del cuneo fiscale dovrebbe rendere le assunzioni meno onerose per le aziende porterebbe ad aumentare occasioni e opportunità per chi sta cercando lavoro.
In realtà queste considerazioni sono solo teoriche: è vero che il taglio degli oneri contributivi (che negli anni scorsi sono stati progressivamente e scelleratamente aumentati per coprire altrettanti investimenti in opere e iniziative politiche speculative) aiuterebbe l'inversione di tendenza negativa che sta portando il nostro paese verso il default finanziario.
Ma proprio perché questo traguardo così alto di tassazione è il risultato di impegni accumulati, per abbassarlo si dovrebbero tagliare altre iniziative attualmenti in piedi e che al momento puntellano la nostra economia. Costi contro altri costi dunque: si prospeta una riduzione tra quattro e cinque miliardi di euro / anno dal governo.
Per un lavoratore questo vorrebbe dire in media un euro in più al giorno in busta paga: poco più del costo di un caffè.
Questo post è stato pubblicato l'8 ottobre 2013 su Cervelliamo blog

 
  

domenica 6 ottobre 2013

Scrivendo sulla storia n.29 del 6 Ottobre 2013

Il -Teatro cerca Casa- 

A Napoli il teatro si "fa in casa".

E' partita in questo fine settimana a Napoli la II edizione de “Il teatro cerca casa”, l'originale rassegna itinerante con performance artistiche messe in scena all'interno di case private sparse in tutta la città. E' una occasione unica nel suo genere per gli spettatori ma anche per gli attori di conoscere e far assaggiare l'arte della recitazione dal vivo. 
Privi di scenografia, luci e supportati al massimo da un paio di oggetti di scena, gli attori si esibiscono davanti ad un numero limitato di persone (da 20 a 40 a seconda degli spazi) dando vita a performance impegnative di un'ora circa. 
All'esibizione segue un”dibattito” con gli attori e qui il pubblico scopre il lato più conviviale e diretto del teatro, scopre le storie, le emozioni e anche quanta fatica si celi dietro un mestiere che dona il piacere di fare il lavoro che si è sempre sognato. 
Gli appartamenti, i salotti, le terrazze dove tenere queste esibizioni vengono offerti dai padroni di casa disposti ad accogliere amici e non solo nei loro salotti ed impegnati a scegliere per i loro spazi la performance giusta. E così, adesione dopo adesione, nasce il cartellone. 
Quest'anno l'apertura della stagione è avvenuta a Portici con “A testa alta”, storia vera di un pugile napoletano che per primo riuscì a portare Napoli (e la Campania) alle olimpiadi di Helsinki. Era il 1956 e l'attore Antonello Cossia contestualizza molto bene il periodo che dal dopoguerra porta al miracolo italiano. Un'epoca fatta di grandi eventi, guerra fredda e lotte sociali, ma anche di uomini che a testa alta, hanno scritto la storia di quegli anni e il cui insegnamento è ancora attuale. Alcuni oggetti-simbolo, che l'attore porta in scena con se accompagnano la sua performance e alla fine riveleranno una familiarità inattesa con l'attore. Prossimo appuntamento Lunedì 7 Ottobre a Napoli
Questo post è stato pubblicato il 6 Ottobre 2013 su Cervelliamo Blog

mercoledì 11 settembre 2013

Scrivendo sulla storia n. 28 dell'11 settembre 2013

Anniversari che non si dimenticano: aspettando l'11 settembre /4

In quella terribile mattina dell'11 settembre 2001, quando il più grave attentato terroristico della storia degli Stati Uniti venne portato a termine da quattro commando di terroristi arabi, 19 in tutto, solo uno dei quattro aerei dirottati dai fanatici islamici non giunse a colpire il bersaglio prefissato, e questo fu per merito della eroica rivolta dei passeggeri.
La vicenda del volo n.93 della United Airlines, in servizio tra New York e Los Angeles, è ormai chiara nelle sue linee generali.
Locandina film United 93E' ormai chiaro che i 33 passeggeri e i 7 membri dell'equipaggio di quel volo furono informati di quanto stava accadendo sugli altri tre veivoli dirottati dai terroristi, e capirono che il loro aereo era stato anch'esso dirottato per scagliarsi contro un bersaglio simbolico. Nonostante le frasi menzognere e tranquillizanti che un dirottatore rivolgeva a loro per tenerli sotto controllo, si resero conto che a loro restava una sola, estrema possibilità di sventare il piano criminale. 
Alla testa del contro-commando si posero Tom Burnett e Tod Beamer: il piano era aggredire all'improvviso i terroristi, disinnescare la bomba e penetrare nella cabina di pilotaggio per prendere il controllo dell'aereo facendolo deviare dal bersaglio.
I passeggeri riuscirono a neutralizzare e forse anche uccidere due terroristi, quelli che sostavano fuori dalla cabina e servendosi degli estintori di bordo come armi di fortuna, e a lanciare l'assalto alla cabina di pilotaggio nella quale gli altri due avevano intanto sopraffatto ed ucciso i due piloti del volo di linea, e si apprestavano ad lanciare l'aereo come una bomba kamikaze verso un obiettivo simbolico della civiltà occidentale, probabilmente la Casa Bianca o il Congresso.
Le registrazioni sonore di quei minuti di grida concitate e urla di vittoria, testimoniano che lo scontro fu fino all'ultimo respiro, in un'assurda improvvisata battaglia corpo a corpo tra passeggeri e terroristi.
Anche il modo in cui si concluse fu esso assurdo, ingiustificabile come tutto il resto: pur di non desistere dal loro folle gesto, i dirottatori puntarono l'aereo in picchiata, disintegrandosi nell'impatto al suolo.
Cinque anni dopo il dramma della Pennsylvania, il dramma è stato rievocato in un film americano, United 93 che ha avuto notevole successo e che descrive bene anche lo sconcerto e l'impaccio delle autorità civili e militari, che non sanno come affrontare un'emergenza così anomala e imprevista.

Questo post è stato pubblicato l'11 settembre 2013 su Cervelliamo blog

martedì 10 settembre 2013

Scrivendo sulla storia n. 27 del 10 settembre 2013

Anniversari che non si dimenticano: aspettando l'11 settembre /2

Ci sono date, anniversari che non si dimenticano, e che ogni volta che ricorrono riportano alla mente una o cento storie. Storie anche non clamorose, ma nel complesso tutte le storie contribuiscono a rendere l'avvenimento indimenticabile. Al centro di esse ci sono sempre uomini e non che con il loro operato, o con la sola presenza, hanno scritto la storia. E probabilmente hanno reso quelle date indimenticabili.
Dan Holdridge l'11 settembre 2001 era al lavoro dentro al Pentagono come appaltatore ed era un giornata bellissima, piena di sole. Quel mattino, andò al lavoro in ritardo, a causa di una teleconferenza a cui aveva dovuto partecipare. Era l'appuntamento settimanale del martedì, ma in quella settimana fu anticipata al martedì. E questo probabilmente gli salvò la vita. Si stava incamminando con il suo collega Bobby verso il Naval Command Center, la sede media del Pentagono. Avevano appena saputo dei due aerei che si erano schiantati a New York contro le Twin Tower. Ad un certo punto, diretto al suo collega esclamò: “cos'altro deve ancora succedere, oggi? Attaccheranno pure il Pentagono?” In quel momento un'esplosione li sollevò entrambi, scaraventandoli lontano. Dan pensò che sarebbe morto. Si guardò attorno, riuscì a vedere Bobby gravemente ferito, e si rassegnò. Invece, subito dopo il personale di sicurezza del Pentagono venne per evacuare le persone, che furono portate in un'area dove venivano assegnate le priorità mettendo dei nastri al polso. Un nastro verde per chi non era in pericolo di vita; fu il colore che ricevette Dan. Nastro giallo significava la necessità di cure rapide ma che se la sarebbe cavata, e fu il colore che ricevette Bobby. Nastro rosso per quelli in pericolo di vita. L'ultimo, il nastro nero per chi era morto.
Mentre era in quest'area Dan sentiva odore di carne bruciata, sentiva i lamenti delle vittime, ma anche altra gente che urlava:”Dove posso donare il sangue? Dove posso donare il sangue?” Il grande spirito dell'America si era già messo in moto, nonostante l'immane tragedia.
Dopo le prime sommarie cure, Dan e Bobby furono abbandonati seduti al lato della strada, quando arrivò un grosso SUV con una donna alla guida. Si chiamava Erin Anderson, e, nonostante nessuna macchina era autorizzata a muoversi attorno al Pentagono in quel momento, li caricò a bordo e li portò all'ospedale. Durante il viaggio Dan ebbe appena la forza per dire “Grazie molte di averci caricato.” Lei si volse,lo guardò dritto negli occhi e disse:“Non so perché sono qui. Ero seduta in casa e ho sentito di dover aiutare qualcuno”.
Da quel giorno, Dan impiega il suo tempo tenendo conferenze su quanto ha vissuto. In ogni scuola, in ogni azienda in cui è chiamato a ricordare il suo 11 settembre, ricorda che “tutti abbiamo una Erin Anderson dentro di noi. Tutti abbiamo la capacità, quando succede qualcosa, di alzarci e di trovare l'eroe dentro di noi e offrire il nostro aiuto. Non serve un altro 11/9, dobbiamo soltanto uscire a cercare chi ha bisogno di noi”.


Questo post è stato pubblicato il 10 settembre 2013 su Cervelliamo blog

lunedì 9 settembre 2013

Scrivendo sulla storia n. 26 del 9 settembre 2013

Anniversari che non si dimenticano: aspettando l'11 settembre / - 2

Ci sono date, anniversari che non si dimenticano, e che ogni volta che ricorrono riportano alla mente una o cento storie. Storie anche non clamorose, ma nel complesso tutte le storie contribuiscono a rendere l'avvenimento indimenticabile. Al centro di esse ci sono sempre uomini e non che con il loro operato, o con la sola presenza, hanno scritto la storia. E probabilmente hanno reso quelle date indimenticabili.
Quando vide il primo aereo arrivare, Tania si trovava al 96esimo piano della torre Sud del World Trade Center, dove era impiegata. Dichiarò che temendo per la sorte del suo promesso sposo Dave, che lavorava nella torre Nord, si precipitò fino al 78esimo piano per avvertirlo. 
Intanto alle 9 e 03 dell'11 settembre 2001 un secondo aereo, anch'esso dirottato, da li a poco avrebbe impattato contro la torre Sud che poco dopo si sarebbe disintegrata al suolo. La corsa le salvò la vita, ma non riuscì a salvare il suo Dave. Per sei anni, fino al 2007, la loro storia commovente, quell'amore spezzato e la fuga dalla morte di Tania Head hanno riempito le cronache di tutto il mondo.
Tania fu eletta presidente di un' associazione dei sopravvissuti agli attacchi terroristici. E' stata ricevuta da Rudolph Giuliani e Michael Bloomberg, sindaci di New York. La sua storia è stata presa a esempio tra mille vicende legate all’11 settembre.
Foto attentato 11 settembrePeccato che fosse tutto falso. E che lei sulle Torri Gemelle non ci fosse mai stata, non aveva mai avuto alcun Dave né altri cari scomparsi nell’incidente. Un bluff totale, frutto forse della follia, magari ispirato da un morboso desiderio di notorietà.
Nessuno aveva mai avuto ragioni per dubitare della sua storia, una delle tante sfaccettature di una tragedia planetaria. Almeno fino al 2007, quando un giornalista del New York Times, incaricato di scrivere un articolo su di lei le rivolse qualche domanda in più. Domande alle quali Tania Head non fu in grado di rispondere e che permisero di appurare che la donna non aveva mai lavorato alle Twin Towers, né stava per sposarsi. Che l’11 settembre del 2001 si trovava a Barcellona, in Spagna, sua città natale, trattandosi in realtà di tale Alicia Esteve. Alicia alias Tania, per un suo disturbo della personalità, aveva bisogno di essere al centro dell’attenzione. Aveva studiato negli Stati Uniti e deciso di tornarci nel 2001: appena in tempo per calarsi nel personaggio-Tania. Subito dopo il 2007, senza fornire alcuna spiegazione per l’accaduto, la donna si è eclissata. Ma a undici anni dalla tragedia, le sue tracce sono riemerse: Alicia Esteve aveva trovato lavoro a Barcellona, ma quando nell'aprile 2012 il video-choc sulla sua storia è uscito negli Usa, la società ha deciso di licenziarla. E la follia di Alicia-Tania è di nuovo esplosa. La donna ha accusato i responsabili di essere insensibili per «aver cacciato una vittima del terrorismo internazionale». Eppure, sul suo curriculum utilizzato in Spagna, vantava ancora di essere stata presidente dell’Associazione sopravvissuti agli attentati del World Trade Center.
Questo post è stato pubblicato il 9 settembre 2013 su Cervelliamo blog

domenica 8 settembre 2013

Scrivendo sulla storia n. 25 del 8 Settembre 2013

 

Anniversari che non si dimenticano: aspettando l'11 Settembre (-4)

Ci sono date, anniversari che non si dimenticano, e che ogni volta che ricorrono riportano alla mente una o cento storie. Storie anche non clamorose, ma nel complesso tutte le storie contribuiscono a rendere l'avvenimento indimenticabile. Al centro di esse ci sono sempre uomini e non che con il loro operato, o con la sola presenza, hanno scritto la storia. E probabilmente hanno reso quelle date indimenticabili.
Torri GemelleAllo scoccare del tragico anniversario dell'11 settembre 2001, quando quattro aerei civili furono dirottati da un commando-suicida di terroristi musulmani e due di questi abbatterono le Torri Gemelle di New York, provocando oltre tremila morti, l'America ricorda tutti i suoi morti e gli eroi, anche quelli a quattro zampe.
Perché a lavorare tra le macerie di Ground Zero vi furono anche decine e decine di cani da soccorso, utilizzati prima per cercare superstiti, poi per recuperare ciò che rimaneva di loro. Testimoni inestimabili in una delle più grandi tragedie vissute negli ultimi anni da tutta l'umanità il loro lavoro fu a dir poco prezioso, e centinaia di familiari non avrebbero trovato la pace del ricongiungimento, in qualsiasi modo, di un membro della propria famiglia o di un amico.
Da quell'11 settembre 2001 i cani di soccorso hanno lavorato per giorni al fianco di vigili del fuoco, protezione civile, soccorritori sanitari, forze dell'ordine instancabilmente, senza mai fermarsi, nell'area di Ground Zero fatta di fumo penetrante, odori acri, polvere e rumore, su turni estenuanti di otto o dieci ore.
Unici nel riconoscere grazie al loro olfatto in un brandello deforme o in un pezzo di metallo dalla forma di cartone per la pizza i miseri resti di un essere umano fuso dall'infernale incendio che precedette il crollo, le povere bestie, raccontano i loro conduttori, impazzivano letteralmente in quei momenti, non riuscendo a spiegarsi cosa fosse quell' insieme di materiali. E per questo, come tutti i soccorritori, dopo il loro turno di lavoro, venivano portati in un parco a rilassarsi, come se anche i loro proprietari volessero togliere loro di dosso l’odore acre della morte.
Oggi molti di quei cani non ci sono più. Alcuni di loro sono morti di tumori rarissimi, e questo fa pensare che siano stati esposti a qualcosa di fortemente tossico.
Dei circa 100 leali cani da ricerca che lavorarono tra le macerie, solo una dozzina circa era ancora vivi nel decennale dell’evento. Le loro fatiche, l'orrore di quei giorni si possono ancora vedere nei loro occhi, immortalati per sempre da Charlotte Dumas in un libro fotografico intitolato “Retrieved”.


Questo post è stato pubblicato l'8 settembre 2013 su Cervelliamo blog