giovedì 15 agosto 2013

Scrivendo sulla storia n.17 del 15 Agosto 2013

Buon ferragosto ovunque voi siate. Anche in prigione per un esperimento.

Buon ferragosto, dunque. Ma cosa avete pensato davvero mentre festeggiavate il Ferragosto? Alla festa di ringraziamento tramandataci dal 18 secolo a.c. dall'imperatore Augusto per il proficuo raccolto dei campi attraverso un pranzo luculliano? O avete rinnovato il rito della purificazione dell'acqua a Roma, con chiusura ed allagamento di Piazza Navona e la conseguente orgia di secchiate (che oggi chiamavate gavettoni). Escludendo i riti cattolici dell'Assunta e della Vara o Bara (a Messina), nessuno sicuramente oggi ha pensato come potesse essere passare Ferragosto in carcere.
In carcere, si volontariamente. Non per aver commesso un crimine efferato, ma per celebrare il più celebre esperimento di psicologia sociale di sempre, cominciato quarant'anni fa nei sotterranei di una facoltà di psicologia e interrotto dopo soltanto sei giorni e mai più ripetuto.
Immagine dell'esperimento di StanfordFu nella calda estate del 1971 che un giovane professore di psicologia di 38 anni dell'Università di Stanford , Philip Zimbardo e il suo gruppo di ricercatori reclutarono 24 ragazzi bianchi, li sottoposero a dei test di stabilità psicologica e grazie al lancio di una monetina, assegnarono casualmente a ciascuno di loro il ruolo di “prigioniero” o di “guardia” in quello che diventerà il più celebre esperimento di psicologia sociale della storia. Oltre ai diciotto volontari coinvolti inizialmente, nove guardie e nove prigionieri, altri sei rimanevano disponibili nel caso fossero necessari rinforzi per le guardie o rimpiazzi per i prigionieri.
A sorpresa, il 14 agosto 1971 la metà di loro fu arrestata in casa dalla polizia di Palo Alto (che aveva accettato di collaborare con il dipartimento di psicologia dell’università di Stanford) con l'accusa di furto e rapina a mano armata. Gli arrestati furono registrati, bendati e trasferiti in un dipartimento dell'Università, nel frattempo camuffato da prigione senza finestre né orologi. Con tanto di sbarre di ferro e ad una estremità, uno sgabuzzino di sessanta centimetri per sessanta, “la cella d’isolamento”.
 Al suo arrivo ogni detenuto venne perquisito, denudato e rivestito solo di un camicione lungo di colore bianco, con davanti e dietro il numero di matricola personale di tre o quattro cifre, mimando le normali pratiche carcerarie. Invece di essere rasato, ad ognuno di loro venne messo in testa un copricapo ricavato da una calza di nylon. Alla caviglia destra gli venne chiusa con due lucchetti una pesante catena ad anelli di metallo che non sarebbe stata tolta in nessuna occasione, neppure durante la notte.
Le nove guardie, si alternavano in tre turni da otto ore, indossavano tutte la stessa divisa, avevano un fischietto al collo e avevano ricevuto un manganello in prestito dalla polizia. Le guardie non avevano avuto nessuna indicazione specifica su come comportarsi. Per mantenere l’ordine nella prigione potevano fare qualsiasi cosa purché non attentasse all’integrità fisica dei detenuti. L'esperimento era partito alla grande. E grande furono le vicissitudini e le sorprese: dopo i primi due giorni di pacifica convivenza tra pseudo-detenuti e pseudo-carcerieri, le regole scritte della prigione preparate con la supervisione degli psicologi che seguivano l’esperimento saltarono: si verificarono episodi di rivolta, ritorsioni punitive al limite del sadismo, casi di esercizio gratuito del proprio potere da parte dei carcerieri e crisi d'ira da parte dei prigionieri.
foto dell'esperimentoNessuno dei partecipanti all'esperimento rimase immune da quell'atmosfera: il sorgere di contrasti addirittura tra i componenti dell'equipe convinse sabato 20 agosto 1971, dopo soli sei giorni dei quattordici previsti, il professor Zimbardo ad interrompere l'esperimento, tra il sollievo dei prigionieri e l'insoddisfazione delle guardie.
I risultati dell’esperimento della prigione di Stanford furono pubblicati su diverse riviste scientifiche. Secondo le teorie del professor Zimbardo chiunque poteva essere spinto da un certo contesto a commettere abusi, ridimensionando le teorie su una eventuale “predisposizione” di alcuni individui ad esercitare l’autorità con violenza.
L’esperimento venne anche molto criticato negli ambienti della psicologia. Secondo alcuni di loro il comportamento dello psicologo, agendo da “sovrintendente capo” della prigione e indirizzando alcuni discorsi alle guardie, avrebbe falsato il loro comportamento e avrebbe dato troppe istruzioni implicite su come comportarsi.
Nel 2001, due professori di dell’università di Exeter e dell’università di St. Andrews, organizzarono un esperimento simile a quello di Stanford. L’esperimento durò nove giorni, due meno del previsto, e le cose andarono in modo del tutto diverso rispetto allo studio di trent’anni prima: le guardie non si adattarono mai facilmente ai loro ruoli e i prigionieri si ribellarono il sesto giorno riuscendo a prendere il controllo della situazione, ma gli attriti all’interno del gruppo dei detenuti portarono a un nuovo regime in cui alcune guardie si coalizzarono con alcuni detenuti. Si creò quindi un sistema tirannico simile a quella della prigione di Stanford, e anche qui i supervisori decisero di interrompere l’esperimento.
Ad oggi l’eredità dell’esperimento di Stanford è ancora attuale: come dimenticare le immagini e le notizie degli abusi sui prigionieri iracheni da parte delle guardie statunitensi del carcere di Abu Ghraib, di Guantanamo e le denunce delle violenze ed abusi subite oltre ogni misura da alcuni detenuti oggi?
Intervistato recentemente, il dottor Zimbardo ammette ancora oggi che il Ferragosto (e l’esperimento) di quarant’anni fa lo hanno cambiato per sempre. 

Questo post è stato pubblicato il 15 Agosto 2013 su Cervelliamo blog

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