Buon ferragosto ovunque voi siate. Anche in prigione per un esperimento.
Buon
ferragosto, dunque. Ma cosa avete pensato
davvero mentre festeggiavate
il Ferragosto?
Alla
festa di ringraziamento tramandataci dal 18 secolo a.c. dall'imperatore
Augusto per il proficuo raccolto dei campi attraverso un pranzo luculliano?
O avete rinnovato il rito della purificazione dell'acqua a Roma, con
chiusura ed allagamento di Piazza Navona e la conseguente orgia di
secchiate (che oggi chiamavate gavettoni). Escludendo
i riti cattolici dell'Assunta e della Vara o Bara (a Messina),
nessuno sicuramente oggi
ha
pensato
come potesse essere passare Ferragosto in carcere.
In
carcere, si volontariamente. Non per aver commesso un crimine
efferato, ma per celebrare il
più
celebre esperimento di psicologia sociale di sempre, cominciato
quarant'anni fa nei sotterranei di una facoltà di psicologia e
interrotto dopo soltanto sei giorni e mai più ripetuto.
Fu
nella calda estate del 1971 che un giovane professore di psicologia
di 38 anni dell'Università di Stanford , Philip Zimbardo e il suo
gruppo di ricercatori reclutarono 24 ragazzi bianchi, li
sottoposero a dei test di stabilità psicologica e grazie al lancio
di una monetina, assegnarono casualmente a ciascuno
di
loro il ruolo di “prigioniero” o di “guardia” in quello che
diventerà il più celebre esperimento di psicologia sociale della
storia. Oltre ai diciotto volontari coinvolti inizialmente, nove
guardie e nove prigionieri, altri sei rimanevano disponibili nel caso
fossero necessari rinforzi per le guardie o rimpiazzi per i
prigionieri.
A
sorpresa, il 14
agosto 1971 la
metà di loro fu arrestata in casa dalla polizia di Palo Alto (che
aveva accettato di collaborare con il dipartimento di psicologia
dell’università di Stanford)
con l'accusa di
furto e rapina a mano armata. Gli
arrestati furono registrati, bendati e trasferiti in un dipartimento
dell'Università, nel frattempo camuffato da prigione senza finestre
né orologi. Con
tanto di sbarre
di ferro e
ad
una
estremità, uno sgabuzzino di sessanta centimetri per sessanta, “la
cella
d’isolamento”.
Al
suo arrivo ogni detenuto venne perquisito, denudato e rivestito solo
di un camicione lungo di colore bianco, con davanti e dietro il
numero di matricola personale di tre o quattro cifre, mimando le
normali pratiche carcerarie. Invece di essere rasato, ad ognuno di loro venne messo
in testa un copricapo ricavato da una calza di nylon. Alla caviglia
destra gli venne chiusa con due lucchetti una pesante catena ad
anelli di metallo che non sarebbe stata tolta in nessuna
occasione, neppure durante la notte.
Le
nove guardie, si alternavano in tre turni da otto ore, indossavano
tutte la stessa divisa, avevano un fischietto al collo e avevano ricevuto un
manganello in prestito dalla polizia. Le
guardie non avevano
avuto nessuna
indicazione specifica su come comportarsi. Per
mantenere l’ordine nella prigione potevano fare qualsiasi cosa
purché
non attentasse all’integrità fisica dei detenuti. L'esperimento
era partito alla grande. E grande furono le vicissitudini e le
sorprese: dopo i primi due giorni di pacifica convivenza tra pseudo-detenuti e pseudo-carcerieri, le
regole scritte della prigione preparate
con la
supervisione degli psicologi che seguivano l’esperimento saltarono:
si
verificarono episodi
di rivolta, ritorsioni punitive al limite del sadismo, casi di esercizio
gratuito del proprio potere da parte dei carcerieri e
crisi d'ira da parte dei prigionieri.
Nessuno
dei partecipanti all'esperimento rimase immune da quell'atmosfera: il
sorgere
di contrasti addirittura tra i componenti dell'equipe convinse
sabato
20 agosto 1971, dopo soli sei giorni dei quattordici previsti, il
professor Zimbardo ad
interrompere
l'esperimento, tra il sollievo dei
prigionieri e l'insoddisfazione
delle guardie.
I
risultati
dell’esperimento della prigione di Stanford furono pubblicati su
diverse riviste scientifiche. Secondo le teorie del professor Zimbardo chiunque
poteva essere spinto da un certo contesto a commettere abusi,
ridimensionando le teorie su una eventuale “predisposizione” di
alcuni individui ad esercitare l’autorità con violenza.
L’esperimento
venne anche molto criticato negli ambienti della psicologia. Secondo
alcuni
di
loro
il
comportamento dello
psicologo, agendo da “sovrintendente capo” della prigione e
indirizzando alcuni discorsi alle guardie, avrebbe falsato il loro
comportamento e avrebbe dato troppe istruzioni implicite su come
comportarsi.
Nel
2001, due professori di dell’università di Exeter e
dell’università di St. Andrews, organizzarono un esperimento
simile a quello di Stanford. L’esperimento durò nove giorni, due
meno del previsto, e le cose andarono in modo del tutto diverso
rispetto allo studio di trent’anni prima: le guardie non si
adattarono mai facilmente ai loro ruoli e i prigionieri si
ribellarono il sesto giorno riuscendo a prendere il controllo della
situazione, ma gli attriti all’interno del gruppo dei detenuti
portarono a un nuovo regime in cui alcune guardie si coalizzarono con
alcuni detenuti. Si creò quindi un sistema tirannico simile a quella
della prigione di Stanford, e anche qui i supervisori decisero di
interrompere l’esperimento.
Ad oggi l’eredità
dell’esperimento di Stanford è ancora attuale: come
dimenticare le
immagini e le notizie degli abusi sui prigionieri iracheni da parte
delle guardie statunitensi del carcere di Abu Ghraib, di Guantanamo e
le denunce delle violenze ed abusi subite oltre ogni misura da alcuni
detenuti oggi?
Intervistato
recentemente, il dottor Zimbardo
ammette
ancora
oggi che il
Ferragosto (e l’esperimento)
di quarant’anni fa lo hanno
cambiato per sempre.
Questo post è stato pubblicato il 15 Agosto 2013 su Cervelliamo blog
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